L'altezza del gioco
E fra i più
onesti,
molti ammutolirono di fronte
al precipitare di eventi che trasformavano l'assetto geopolitico
del mondo intero.
Io stesso, sfiancato da tanto girare sotto i palchi sempre chiedendo
di recitare, esasperato da tutti quei burocratici sorrisini che
accompagnavano, e non m'importava più, l'assenso o il diniego,
e valutando infine che quell'esperienza di poesia in pubblico,
già di per sé rischiosa, potesse davvero trasformarsi
in ciò che io assolutamente non volevo, pura declamazione
e consolazione, segno di impotenza e non di signoria, e che occorresse
affrontare i chiodi della solitudine per ritrovare un accento
di verità, tornavo a rinchiudermi nella cucina di casa
mia da cui ero uscito con tanta fatica una trentina d'anni prima.
Fuori, gli edifici del sopruso si levavano intatti. E anzi, si
moltiplicavano. Di quella livida geografia Fortini continuava
tenace la ricognizione, la sua instancabile verifica dei poteri,
con una voce certo più isolata, ma forse per questo ancora
più netta, confrontandosi, ragionando, discutendo, mettendo
in guardia. Insistendo: per usare una locuzione a lui cara.
"E' stato gravemente malato per molti mesi", mi scriveva
Ruth, "ma ha sempre cercato di lavorare non apppena sentiva
un lieve miglioramento". Questa costanza vigile è
la lezione di Fortini. Il suo esempio. E il suo onore.
In L'altezza del gioco, Cagliari,
CUEC, 2003
La parola giusta.pdf