Compagno poeta
Ogni volta che
torna aprile, e
Milano si mette al bello, col vento che pare stringerla in vita
per portarsela via, è sempre la stessa rabbia di quei giorni
che mi prende alla gola.
Entravano in piazza. Gli striscioni ormai li avevano arrotolati.
Per tutto il pomeriggio, davanti al Comune, avevano gridato che
la casa è un diritto. Ma adesso non sapevano nulla che
non fosse il vento, l'aria tersa del tramonto, e quel profumo
che stordiva. Poi i colpi. Uno, due, brevi, secchi. Per Claudio
Varalli, la primavera finiva così, a sedici anni. Col viso
solo un po' stupito. I fascisti erano già scappati. Verso
la Questura.
Il giorno dopo c'eravamo tutti. Scendevamo per corso di Porta
Vittoria, in un silenzio strano. Di tanto in tanto, una voce:
"Almirante", e il corteo dietro, per quanto era lungo,
"Assassino", rispondeva. Sapevamo dove andare. Per anni,
da via Mancini, dov'è la sede dell'MSI, erano usciti con
catene, con coltelli, con pistole. Sapevamo anche che non ci avrebbero
fatto arrivare fin là. Ma eravamo in tanti. E la fotografia
di quel ragazzo sull'asfalto era negli occhi di tutti. Di cordone
in cordone, poi, rimbalzava una notizia. Si diceva che ne avessero
ammazzato un altro, a Torino. Uno di Lotta continua. Tonino Micciché.
E così continuavamo ad andare. Molti col fazzoletto sul
viso. Altri coi tascapane gonfi di sassi. Ma tutti con quella
decisione dura che sentivi anche da come ti si stringeva al braccio
il compagno accanto. Non si vedeva un poliziotto.
Poi, d'improvviso, dove il corso si slarga in una piazza, quando
già eravamo entrati per metà, e gli altri premevano
dietro, le sirene, e una gran nuvola di fumo. C'è appena
il tempo di chiedersi che cosa stia succedendo, che da tutto quel
disastro, come impazziti, sbucano i camion dei carabinieri. Salgono
sul marciapiede. Puntano diritto sulla gente.
I sassi, ormai, non servivano più.
Dopo un lungo giro per evitare i posti di blocco, salgo su un
autobus. In un angolo, e questo non lo dimentico più, c'era
un compagno, appoggiato al finestrino. E' Tumminelli. E' grande
e grosso, Tumminelli. E così, davanti a tutti, piange.
Mi dice di Giannino, di come l'abbiano massacrato le ruote, che
lui era là, che non gli si riconosceva nemmeno più
la faccia, e pensa che solo ieri al baretto scherzavamo insieme,
e tutti gli volevano bene, non era giusto morire così,
perché era tanto buono, Giannino, sì, Giannino Zibecchi.
In Compagno poeta, Torino, Einadi, 1980
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